Non è solo questione di parole…
Se come me siete dei veri o delle vere wordaholic, affetti/e cioè da quella strana forma di ossessione per le parole, altrimenti detta ipercorrettismo o pignoleria, che è tipica d’ogni traduttore, interprete e studioso delle lingue, vi invito a non farvene un cruccio e vi confesso che qui troverete pane per i vostri denti.
Io stessa mi reputo parte della suddetta categoria, di quelli che «questa parola non la conosco, vado subito a cercarla sul sito della Treccani», «questa parola viene dal francese, ne sono sicura. Adesso vado a controllare», «qui c’è un errore di traduzione», «qui c’è un calco dall’inglese», «questa parola non è appropriata in questo contesto», «questo in italiano non si dice», «se io cosa?!».
Insomma, sono e siamo dei veri maniaci delle parole. Per quanto mi riguarda, sin da bambina ho maturato un vero e proprio interesse per lo studio delle parole, dapprima nella mia lingua madre, l’italiano, e poi, a partire dalle scuole medie, nelle lingue straniere.
Ho sempre cercato di costruire i miei discorsi con la parola o il termine più appropriato, entrando spesso in quel circolo vizioso in cui non si è mai soddisfatti del proprio modo di esprimersi, e ogni cosa messa per iscritto viene evidenziata, sbarrata e cancellata mille volte prima di arrivare alla versione finale. All’orale, invece, se non si inizia a parlare come macchinette con un eloquio e una proprietà di linguaggio che farebbero invidia a Dante in persona, si balbetta, ci si interrompe, si indugia su una parola pensando subito a come sostituirla impiegando un termine più corretto. Ma più corretto per chi?
La verità è che… come direbbero gli inglesi “it’s not just a matter of words”: non è solo questione di parole. La parola è l’involucro esterno, il primo strato delle lingue, la matrioska più grande che contiene al suo interno esemplari sempre più piccoli.
La parola è un’etichetta, una sorta di carta d’identità di uno o più concetti che l’uomo, da sempre e per assolvere alla primissima funzione del linguaggio, quella comunicativa, desidera esprimere. Se vogliamo metterci di mezzo la filosofia, la parola funziona in sé come una piccola monade, è un piccolo centro vitale che brilla di luce propria e che insieme ad altri minuscoli universi va a costituire il lessico di una lingua.
Ma di cosa è fatta la parola? Cosa c’è al suo interno di così mistico? Perché impazzire nella scelta di una parola, un termine o una particolare espressione? That’s exactly the point.
La nostra professione ruota proprio intorno a tale compito, quello di scoprire l’essenza, la natura e il significato delle parole, di studiarne i singoli elementi costitutivi, di analizzarne l’etimologia, di opporre la struttura di un termine a quella del suo equivalente in altre lingue. Ciò è da sempre un’impresa ardua. Un compito difficilissimo che porta i linguisti a scoprire continuamente nuove parole, nuove accezioni, nuove sfumature di significato, le quali a loro volta, nascondono dietro di sé nuovi mondi, alcuni solo parzialmente esplorati, altri ancora sconosciuti. Per non parlare di quando la parola-monade si aggancia ad altri suoi simili per formare frasi, periodi, paragrafi, testi. La parola è uno strumento potentissimo, ha la capacità di creare o distruggere mondi, costruire ponti o innalzare muri, di cambiare ogni cosa. Questo perché quando si parla, si scrive, si legge o si pensa non è mai soltanto questione di parole.
Da poco ho iniziato ad affacciarmi al mondo della traduzione e credo di aver imparato due cose: la prima è che nel mio lavoro, sicuramente, non mi annoierò mai. La seconda è che devo darmi una bella calmata con le manie di perfezione perché altrimenti, oltre a rischiare di farmi rinchiudere per evidenti disturbi ossessivo-compulsivi di natura linguistica, potrei pure rimanere senza amici.